IL FUTURO NEL PASSATO
di Franco Bertoni
 
“Concreta” a Certaldo.
Un evento giunto alla terza edizione grazie all'impegno profuso dal curatore Gian Lorenzo Anselmi e, aspetto da sottolineare tre volte visti i tempi, alle costanti attenzioni di una sensibile Amministrazione Comunale. Certaldo non è tra le città di antica tradizione ceramica anche se è ingemmata da mirabili ceramiche invetriate robbiane e se può vantare l'ormai solida attività, produttiva e didattica, dell'associazione culturale La Meridiana.
Perché Certaldo, allora?  
Si potrebbe rispondere:”Perché non Certaldo?”
L'arte della ceramica, lungo il secolo scorso, si è guadagnata un ruolo paritario con altre forme di espressione artistica e il mezzo ceramico è ormai patrimonio di artisti della più diversa origine e dalle più variegate finalità. Prova ne sia la sua consistente e significativa presenza all'attuale Biennale di Venezia. Inoltre, con la ceramica sono state scritte pagine del Novecento che ancora attendono una adeguata considerazione da parte della storia dell'arte. Proviamo a pensare all'Art Nouveau italiana senza Galileo Chini, al futurismo tra le due guerre senza Tullio D'Albisola, allo spazialismo senza le ceramiche di Lucio Fontana e all'informale senza Leoncillo. In questi e altri casi con la ceramica sono stati raggiunti vertici indiscutibili. Cessate vecchie diatribe, artisti della ceramica e artisti con la ceramica si rivolgono oggi a questo mezzo soprattutto per fini scultorei anche se a vincere sono sempre quelle superfici e quei colori che solo la ceramica può concedere. Senza fare nomi, il passaggio dalla scultura in resina, in legno policromo o in cartapesta alla scultura in ceramica ha significato per molti artisti contemporanei il raggiungimento di un superiore grado di complessità e oggettività dell'opera, per non parlare di una maggiore carica seduttiva.
Se la ceramica è scultura e, quindi, arte a tutti gli effetti, ogni luogo è pertinente. E Certaldo, con le stanze del Palazzo Pretorio offre, per di più, una sfida all'arte contemporanea: il confronto con la storia. Un confronto che l'arte moderna ha certamente praticato, ma più sul fronte dell'opposizione, in nome di una guadagnata libertà da antichi modelli, che su quello del dialogo e del filiale rispetto.
A dividerci da una decisiva resezione con la tradizione il secolo breve; un secolo estremamente generoso sul piano artistico ma anche afflitto (James Joyce, Ezra Pound e Thomas S. Eliot ne sono i mentori più autorevoli sul piano letterario) dalla poetica del frammento, della deriva e della scheggia nell'attesa di una epifania e di una ricomposizione ancora non avveratasi.
In ceramica, rotto il secolare vaso in cui forma, funzione e narrazione procedevano unitamente di pari passo, si è assistito a una sorta di esplosione che ha spinto nel firmamento dell'arte i suoi frammenti.
Rotto il cordone ombelicale con la storia, gli ismi del Novecento si sono, però, dimostrati di corto respiro e, in genere, frutto di un particolarismo e di un soggettivismo, alla lunga, sterili e inerti soprattutto quando è venuto a mancare il momentaneo, decisivo supporto della novità sensazionalistica. Se il difetto delle mode è quello di passare di moda, questo è lo scotto che tante ipotesi hanno dovuto pagare alle accelerazioni e ai sussulti di un secolo veloce e terrorizzante come una navicella spaziale sfuggita a ogni controllo della terra e destinata a cozzare contro asteroidi e pianeti con deflagrazioni materiche e coloristiche certamente mai viste prima ma anche a inoltrarsi, sempre più, nel freddo buio del non ritorno. Ma il passato è sempre lì a ricordarci da dove veniamo e cosa potremmo essere.
Alcuni hanno raccolto i frammenti per conservarli a futura memoria o in attesa di una ricomposizione (Picasso) e altri hanno cavalcato l'onda delle forme disarticolate nell'ingenua o interessata convinzione che in questo consistesse la modernità. Il secolo scorso ha esordito con l'elogio e lo schianto di un'automobile (quella di Marinetti) inaugurando un'epopea di tuberie; con l'irrisione dell'antico (con buona pace di Giorgio de Chirico); e non si dirà mai abbastanza della responsabilità dello stesso Bauhaus che già negli Statuti di Weimar aveva programmaticamente abolito ogni disciplina di carattere storico. Come se fosse opportuno recidere le radici millenarie di un colossale albero i cui ultimi rami sostengono anche noi. E tutto il secolo sembra perseguire nelle sue strade maestre, o almeno presunte tali, un programma di progressiva resezione delle fonti di alimentazione: un po' come togliere gli affluenti a un grande fiume. The waste land.
Ma Eliot aspirava a una superiore ricomposizione delle rovine per ritrovare un Senso e pensava a Dante Alighieri, al suo Paradiso e alla dimensione metafisica; lo stesso ha fatto Joyce con il ricorso al metodo mitico nell'Ulisse; come pure Pound con i Cantos, dove la crisi moderna è parte di un puzzle cui concorrono citazioni in ogni lingua, la poesia haiku, Confucio, Schifanoia, la signoria rinascimentale dei Malatesta, brani di musica, ideogrammi cinesi, citazioni economiche e filosofiche, il mito e la preistoria.
Quanto era profonda consapevolezza di una tragica condizione – la solitudine dell'individuo e la crisi di tutti i modelli, i valori, i segni e i codici - è diventato lo status symbol di una contemporaneità, quanto meno, senza direzione.
Si è passati, insomma, della grandiosità di visione concessa dal grandangolo epico alla visione ravvicinata di inessenziali minuterie permessa dal teleobiettivo moderno; dalla coincidenza delle vicende personali e collettive con la realtà ad una autoreferenzialità spesso priva di consistenza. Da Omero alle pagine di un diario personale; dalla complessità di un vaso classico o di una pala dei Della Robbia alle ingenue, reiterate e scolastiche “scoperte” di smalti e cotture che da sole non bastano a sostanziare un lavoro.
E', forse, giunto il tempo di un ampliamento di visione e di una riflessione.
A Certaldo due maestri dello sguardo ampio: Pompeo Pianezzola e Nino Caruso.
Pianezzola ha scritto le pagine più belle della ceramica italiana del Novecento, su lastre piccole e sottili ma paradossalmente monumentali per carica poetica e attrattiva. In una stanza del Palazzo Pretorio tre “libri” combusti, quasi sopravvissuti a un immane incendio e che un particolare incenerimento ha solidificato per l'eternità. L'orrore di un momento li ha colti aperti, con le pagine mosse dal dolce vento primaverile che un umanista ha lasciato alitare tra i legni dello studiolo. Antichi testi sapienziali o religiosi? Non è dato saperlo. L'indifferenza umana o un cataclisma li hanno resi muti ma, proprio per questo, ancora più misteriosi e preziosi. In questa pietrificazione appaiono segni indecifrabili, grafismi inintelligibili, scritture deturpate ma anche i miracoli dell'oro eterno e del colore più fulgido e penetrante. Memorie di uno splendido passato e di verità che non saranno più svelate, i “libri” di Pianezzola interrogano, con l'eloquenza del silenzio, la rumorosa contemporaneità.
Altro grande italiano è Nino Caruso un artista dalle declinazioni politecniche e polimorfe. Caruso oltre che scultore, è stato anche docente, designer, scrittore e direttore di istituti d'arte, nonché fattivo organizzatore di eventi e di organismi nazionali e internazionali dedicati alla ceramica. Da questa dedizione Caruso ha tratto linfa per un impegno che lo ha visto primeggiare nel campo del cosiddetto arredo urbano ma che vorremmo, nel suo caso, intendere più come un sostanziale apporto agli spazi della città che non come un secondario contributo decorativo. Applicando le sue ceramiche modulari ma ad intermittenza variabile agli interni, Caruso ha reso lo spazio intenso e vibrante e con i suoi muri, le sue colonne e i suoi portali ha riportato la magnificenza della più antica cultura mediterranea nei luoghi di un consumo urbano sempre più disattento. Capitelli, rocchi e modanature sono però discontinui e frutto di aggregazioni anche urtanti: dichiarazione di una impossibilità o ultimo tentativo di salvataggio e, per noi, di salvezza?
Un incitamento a non dare tutto per perduto viene dal più generale mondo della cultura.
Francesco Alberoni ha scritto, con coraggio e senza inibizioni: “Guardando la pittura del Novecento, a partire dalle prime opere di Kandinsky e poi via via l'arte astratta fino a Pollock, io ho sempre avuto l'impressione che il vero, profondo significato di quella pittura fosse la frantumazione, la dissoluzione delle forme, anticipazione della dissoluzione dell'Europa con la prima guerra mondiale a cui è seguita la seconda, massacri staliniani, nazisti, genocidi. Non solo l'assenza ma la dissoluzione, la disintegrazione del corpo dell'uomo”. Chiuso questo capitolo, Alberoni ne apre un altro sulla contemporaneità. “Ora io ho sempre immaginato l'evoluzione, il progresso, come un arricchimento dell'uomo, della sua energia, delle sue possibilità di sentire, di pensare, del suo sapere, della sua saggezza. E mi auguravo che il XX secolo con le sue masse militarizzate, i suoi automi ideologici ed i suoi falansteri fosse una interruzione momentanea, una deviazione provvisoria della grande strada maestra della piena umanizzazione. Ma osservando ciò che la gente guarda alla televisione, la musica che ascolta, i libri sempre più sciocchi che legge, lo zampettare su internet, il frastuono in cui vive, mi domando se non stiamo invece continuando sulla strada della frammentazione, anche se non più dei corpi, ma del pensiero, dell'animo, meglio dovremmo dire del suo spirito”.
Dal frammento a una nuova unità, verso la perfezione.
Ed è proprio verso il lontano orizzonte della perfezione che sembrano dirigersi, sviluppandosi con leggerezza, gli organismi fitomorfi o zoomorfi di Marta Pachòn. Una emersione dalle buie profondità del mare verso le terre più assolate e serene. Un rifacimento, con la difficile porcellana, di una sorta di scala evolutiva primordiale che tende alla vita e con essa alla geometria, alla chiarezza, alla forma più pura. Mistero dei cristalli e delle forme elementari. Colombiana e come altri artisti sudamericani avvinta più dai profondi misteri di una terra vitalistica e tragica che dalle forme della cultura umana che la sormontano, Marta Pachòn si è quasi rifiutata a questa epopea per rifugiarsi in un mare originario o nelle sponde ad esso più vicine per osservare, con meraviglia, il lento processo di purificazione della materia più vitalistica e dei suoi colori.
Ma viviamo ancora tra i frammenti, immemori e senza rimpianti.
E la ceramica? La ceramica ha anticipato e rappresentato questa tragedia moderna prima con forme convulse, contorte, combuste e poi con l'odierna perdita di riferimenti e la sostanziale equiparazione di ogni proposta.
Che fare per uscire dalla melassa contemporanea? Difficile dirlo ma il confronto con la storia e i suoi esempi può essere un viatico. Quante opere contemporanee, l'abbiamo già detto, uscirebbero immuni dal confronto con l'antico? Quante opere contemporanee, tolte da quel clima da sfilata di moda che ormai tradizionalmente le avvolge con mille luci puntate e insignificanti spazi bui, potrebbero reggere a fianco di un affresco quattrocentesco o, peggio ancora, in spazi urbani storici ancora alitanti di vita? Non dimentichiamo che una scultura in acciaio corten di Richard Serra, potente e vitale in galleria, è stata fatta rimuovere da uno spazio urbano di New York causa le proteste degli abitanti che, senza torto, vi scorgevano un misero resto di cantiere. L'abbandono in piena Manhattan di un marmo classico indurrebbe, al contrario, ripensamenti sugli edifici all'intorno.
A ricordarci che sulla terra hanno vissuto semidei che parlavano una lingua perfetta, che possedevano il senso del giusto equilibrio e che hanno vissuto una vita meno grigia grossolana della nostra è Christine Fabre. La sua installazione: una serie di sintetiche teste, quasi elmi arcaici, che sembrano ascoltare gli ordini di battaglia di un capo carismatico, un eroe, un figlio degli dei, rilucente come il più puro vetro. Un dialogo muto, parole che non vengono proferite ma che risuonano nello spirito evocando flotte, mura assediate, cieli oscurati dalle frecce, gesta memorabili. Un tempo epico. Gli elmi sono bruciati, presentano lacerazioni e riparazioni ma, come campane, sanno ancora chiamare a raccolta attorno alle azioni di uomini fieri che andavano a teatro posando i piedi sul marmo più puro e traguardando il Mediterraneo sotto la volta di un cielo stellato.
Passatismo? Piuttosto desiderio di una nuova complessità.
Un passo autorevole. E' Georges Duby a scrivere a proposito della tradizione e della perdurante riverenza, in pieno Medioevo, verso la cultura greca e romana: “L'antichità classica rimaneva il modello. L'intenzione era sempre quella di insufflare nuova vita nelle sue vestigia, di riportarle in auge, e, per farlo, di plasmarle. Sigeri, abate di Saint-Denis, acquista un vaso antico; non lo chiude in uno scrigno ma intende riutilizzarlo, incaricando per questo degli orafi di adattarlo, di integrarlo nelle decorazioni che, nella basilica rinnovata, egli utilizza per la liturgia. L'iscrizione che fa incidere sull'oggetto parla chiaro: “Questo vaso era bello, lo è ancora di più ora per quest'offerta dell'opera degli uomini alla gloria di Dio”. Di uomini pienamente coscienti di essere eredi e di proseguire a loro volta un'opera di creazione continua”. Proseguire un'opera di creazione continua. Eredità. Tradizione. Termini inopportuni per una società moderna che tende invece a dividere, ad osservare a distanza, ad etichettare, a catalogare, ad analizzare. Disseccando tutto, come nei musei, e evitando all'arte il confronto con la vita.
Da una Milano avara di forni giunge a Certaldo la proposta di Gabriella Sacchi. Fondatrice e protagonista delle vicende dello Spazio Nibe, Gabriella Sacchi ha indole creativa ma anche didattica. Proviene da docenze e da frequentazioni con Bruno Munari e nella sua attività la trasmissione dei saperi riveste una parte importante. Muoversi con divertimento, libertà e leggerezza sembra essere un suo imperativo, ma sul solco di un progetto, di un pensiero e di un rigore rispettoso di tecniche e procedure. A Certaldo una considerazione sulla ceramica e sulla scrittura. Una installazione con un grande pagina e matite, vasetti e pennelli in ceramica. Scrivere con la ceramica. Ineffabile come un'opera di Fausto Melotti, questa installazione – smisurata come il banco di scuola visto da un bambino - troverebbe la sua più degna collocazione proprio in un istituto scolastico, per instillare un senso di gioia e di energia dove il grigiore, a volte, sopravanza.
Prigioniera, invece, delle gallerie, dei musei e del sistema educativo, l'arte si è distaccata dal movimento della società. Dove sono le ceramiche del design italiano e quelle di una neo-avanguardia come Memphis che pur ha dato lustro internazionale all'Italia degli anni Ottanta? Nelle collezioni e nei musei.
A chiudere, Nedo Merendi: un pittore prestato alla ceramica. Un artista difficile che si nasconde dietro l'uso degli strumenti ceramici più tradizionali: il pennello, i colori e la maiolica. Nessuna accelerazione tecnologica in Merendi come nessuna spinta presuntuosamente innovativa. Solo pittura su maiolica. Con semplici strumenti, che sono stati anche quelli di Raffaello e di Xanto Avelli, Merendi rende omaggio alla grande tradizione pittorica e ceramica e a quella serena bellezza che, in arte, non si osa nemmeno più nominare. Piatti e vasi, non sculture, come è sempre stato. Ma con un apporto concettuale, assistito da una esemplare perizia esecutiva, che rimette tutto in discussione. Su vasi calibrati al millimetro e senza tempo particolare sofisticati decori assonanti e dissonanti di origine astratta o figurativa; sui piatti volti che sembrano invocare un ritorno alla tridimensionalità. Per Merendi l'eccezionale è nelle cose più comuni mentre nell'uscita per la tangente si nasconde, a volte, la più trita banalità. La sua arte: un magistrale invito ad osservare fino in fondo. Come nei suoi disegni in mostra, dove le più comuni rape assumono le sembianze di stazioni satellitari o di città fantastiche, pur rimanendo rape. Il massimo è contenuto nel minimo.
Basta saperlo vedere.
Per secoli i più grandi pittori si sono esercitati sulle dita di una mano e noi li apprezziamo e li riconosciamo proprio per queste piccole ma significative differenze. Oggi, tutto deve essere eccezionale e negare qualsiasi precedente. Occorre riflettere. Ad assisterci in questo un aureo pensiero di Thomas Mann: “Come infatti non si può capire il mondo nuovo e recente senza conoscere la tradizione, così l'amore del vecchio rimane falso e sterile quando si evita il nuovo che ne è derivato per necessità storica”.
  
Arch. Franco Bertoni è esperto delle Collezioni Moderne e Contemporanee del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza e docente di Progettazione all’ISIA di Faenza. Nel 2005 ha pubblicato con Jolanda Silvestrini Ceramica italiana del Novecento, Electa Mondadori.
 

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