Un’occasione aperta di confronto nel fare
di Enrico Crispolti

Credo che vada spesa anzitutto una breve riflessione su un livello di consapevolezza nel quale Concreta si pone per merito della qualità di conoscenza critica e dell’ampiezza di esperienza, acquisita sul campo in attenzione e ricerca, che certamente Gian Lorenzo Anselmi implicitamente possiede nell’apprezzamento di esiti di lavoro creativo che utilizzi il mezzo ceramico. Vale a dire della consapevolezza di poter ormai chiaramente, in tutta libertà, operare al di là di un dilemma che ha angustiato molto a lungo nel tempo, e in qualche misura compromesso nelle effettive possibilità di valorizzazione conoscitiva, le maggiori rassegne dedicate specifica pratica della ceramica. E subito mi spiego.
Negli anni Sessanta e Settanta sono stato più di una volta coinvolto in giurie delle ben note ricorrenti mostre faentine, altrettanto che della ben note Biennali eugubine, dedicate interamente alla ceramica (in alternanza a quelle del ferro). E ricordo bene le battaglie per far apprezzare appunto la ceramica in quanto possibilità di scultura, rispetto alla più consueta e tradizionale scelta, a volte certamente prestigiosa ma non perciò certamente di pretesa esclusiva o comunque preminente, a favore della pratica della ceramica come ambito di creatività oggettistica (vasi, ecc.), e tanto più se con implicazioni (peraltro non sempre così felici) con l’ambito del design. La lotta da ingaggiare ogni volta era nel senso di evitare, nei riconoscimenti da attribuire, una unilateralità radicale a favore, tradizionalmente, dell’oggettistica ceramica (alla quale ovviamente non può non essere riconosciuta, in quanto tale, una grandezza di tradizione nonché di attualità internazionale), considerando per converso marginale, accidentale, qualsiasi altra diversa pratica espressiva di terre, smalti, ecc.
Ma anche quando si aprisse, come non poteva ragionevolmente non accadere, qualche spiraglio d’apprezzamento per un uso plastico della ceramica, ecco insorgere allora altri cogenti pregiudizi, e in particolare quello, comunque, di una sorta di integrità ceramica dell’esito plastico. Si ponevano dubbi, si aprivano questioni oziosamente e pretestualmente capziose, chiedendosi se l’impiego del mezzo ceramico non risultasse comunque materiologicamente di necessità esclusivo (eliminando dunque qualsiasi compromissione espressiva polimaterica). E in questo senso, rispetto a una simile contraddittoria considerazione delle possibilità della ceramica, risultò certamente un atto di rottura quasi sancitorio il fatto che si potesse realizzare nella Biennale della ceramica eugubina del 1974 una grande rassegna, plurigenerazionale, della scultura in ceramica in Italia nel secondo Novecento (che realizzai insieme ad Emanuele Astengo).
Non che intendessi negare, né lo intenda ora, l’importanza della ceramica oggettistica di contro a quella della ceramica plastica. Ciò che contrastavo (e tuttora contrasto) era l’ambiguità di posizioni incapaci di un apprezzamento decisamente separato e specifico, nella dignità di autonomia (in alcuni casi certamente anche soltanto relativa) della scultura ceramica rispetto alla ceramica oggettistica; e dunque, per converso, della piena dignità creativa, anche in termini plastici, dell’oggettistica ceramica. Pratiche distinte e perciò distinguibili anche quando messe in atto da parte di un medesimo autore (come è stato il caso, altissimo, di Fontana, ma anche quello prestigioso di un Melotti oggettista plastico).
Ormai è persino ovvio affermarlo: totale dignità della scultura in ceramica, anche rispetto ad altri media plastici; e totale dignità dell’oggettistica in tutto il suo patrimonio di possibilità inventive, di forme quanto di materie cromatiche. E questa sia nell’aspetto di unicum, sia in quello di una progettazione a piccola scala (ambito appunto del design). Pratiche tutte dalle quali ci si può attendere sempre un capolavoro di espressività, ma relativamente sempre e soltanto ad un proprio specifico, d’intenzione quanto di modi di fattura, per liberissima che sia in termini di ricerca.
Ricordo tutto questo per dire che la libertà di sguardo selettivo, ma anche la certezza d’ambito preminentemente plastico, prescelto da Anselmi godono in certa misura di un ormai da tempo trascorso sfondamento d’opinione. Che è stato possibile anche rendendosi conto della grande tradizione di scultura in terracotta e in ceramica, che in Italia, nel Novecento, passa per un tramando di originali opzioni creative da Martini a Fontana, da Fancello a Leoncillo, da Melotti al primo Fabbri, al primo Garelli, da Valentini a Mainolfi, almeno. E dunque potendosene fare, Concreta, nel tempo suo pur finora beve, un proprio specifico spazio operativo (forse non tanto in senso discriminatorio quanto come implicita misura di libertà creativa).
Ed eccoci dunque a quanto Concreta del 2010, propone. Sei ceramisti eminentemente plastici anziché oggettuali, ma plastici - in un paio di casi - fino al limite di una palese assunzione di pittoricità iconica. Sei personaggi la cui mentalità operativa opportunamente risulta nelle scelte di Anselmi assai diversa, in un’implicita sua consapevolezza di una sorta di virtuale sconfinatezza della pratica espressiva della ceramica (e dunque anche di una sua implicabilità totale quale assolvente mezzo espressivo).
Chinellato è affascinata dal tema della “fragilità della vita”, che nella fattispecie di quanto esposto, interpreta proponendo rivelatorie finestre entro le quali affaccia immagini del tutto verosimili di animali impagliati visibili nella Specola Fiorentina, affascinata da una loro sorprendente spaesata testuale naturalezza. Immagini che testualmente (fotograficamente) riporta su lastre ceramiche poi rotte, a suggerire sempre una condizione di precarietà di equilibrio nel rapporto uomo-natura. A suo modo qui introduce dunque nella dimensione della pratica ceramica una rappresentatività appunto fotografico-pittorica. Così come, altrimenti, nelle due “ciminiere” poste davanti al Museo Benozzo Bozzoli di Castel Fiorentino, attraverso l’acquisizione ceramica del scrittura, sviluppa - spiega - un’ “attenzione sul rapporto che c’è tra l’individuo (comunque presente dietro le finestrelle)e il suo ambiente di vita urbano”
Confortini è immaginativamente impegnata su temi di memoria e comportamento. Lavora su analogie plastiche, forme assai stilizzate di coleotteri, anche come germogli, considerando il ruolo plastico della struttura-scheletro, ma analogicamente anche come possibili stemmi. Usa il colore per decontestualizzare una dimensione altrimenti a rischio di descrittività. E nella Pieve di Santa Maria a Chianti ha realizzata una installazione estremamente significativa, densa di suggestioni memoriali, rispetto a una memoria del luogo frequentato dai pellegrini della Via Francigena, riprendendo il suo lavoro di anni fa sull’erba ma adattandolo a un’interpretazione evocativa della locale frequentazione a parte dei dei pellegrini della Via Franchigena: “un letto di erba, in forma di croce, sul quale si adagiano i resti di un vecchio letto in ferro, per simboleggiare il perseverare contro ogni avversita' morale, etica e temporale della pietas cristiana”.
Mengucci nella consistenza strutturale, plastica, materica, pittorica e corsivamente grafica delle sue superfici, issate su misteriosi oggetti, realizza una intrinseca valenza espressiva cromatico-materica, in una sorta di originale propria sculto-pittura appunto grafico-materica. Che è realizzata operando in gres, utilizzando, nelle matericamente composite superfici, assemblagisticamente, terre, metalli, carte diverse, gesso. Tutto ciò in un’intenzione allusiva quasi a una corporeità zoomorfica delle superfici stesse, aggettivanti espressivamente le supportanti strutture plastiche, altrimenti soltanto primariamente compatte, vagamente geometriche, e che appaiono dunque finalmente immaginate come oggetti-forma vitalizzati appunto nella realtà discorsiva delle loro superfici. Una soluzione plastica di una proposizione pittorico-materica, quasi dunque una pelle delle sue strutture, realizzandocosì un’espressività dialogica delle strutture stesse, anche di notevole mole che quelle superfici appunto supportano e ostentano ma dalle quali sono semanticamente condizionate. Non insomma se una geometria plastica appunto dialogicamente motivata in senso segnico e materico, e valida dunque soltanto a fronte di un’espressività contestuale del tutto fondata su una libera disponibilità grafico-materica.
Poyatos Mora, ceramista d’esperienze strutturali plasticamente anche forti, nella loro evidenza anche ponderale, in ciò che propone in Concreta lavora invece del tutto sulla trasparenza, utilizzando possibilità misteriosamente sorprendenti di virtualità visiva della porcellana appunto in trasparenza, diafana, lavorando su spessori d’ombra: insomma su trasparenze e ombre endomateriche. Ne vengono immagini misteriose estremamente coinvolgenti e suggestive, d’una esplicita figurazione epifanica, che si propongono infatti in uno spaesamento da apparizione misteriosa quasi magica, certo non descrittiva ma psicologicamente implicante. Una ceramica che si fa dunque di dominante valenza pittorica per forza appunto non di colore ma di intrinseca virtualità di presenza diafana in figura. Sono esiti evocativamente molto suggestivi, immaginativamente quanto emotivamente intriganti, capaci anche implicitamente di dimostrare come oggi si chieda alla ceramica una flessibilità strumentale senza confronto rispetto al passato.
Sciannella è certo il più esplicitamente scultore in ceramica, anzi semplicemente in terracotta (ma con inframissioni d’altre materie, come in particolare ora carbone, oltre ce ferro), in questa tornata 2010 di Concreta. Con un’istintiva vocazione al dare terragna consistenza, remotamente elementare e primaria, a ogni sua proposizione plastica, si dispone dialogicamente a porre in atto forti suggestioni immaginative di rimando a spessori memoriali di riscontro antropologico primevo e mitico. La sua scultura, di terracotta, è possentemente materica, fisica, tattile, ricca appunto di suggestioni memoriali antropologiche remote, che egli riattualizza in una sorta di archeologia della memoria di una terra antica quale la sua abruzzese. Operando attraverso una plasticità premeva, di esuberanza quasi cosmogonia, che tende ad affermarsi in dimensione di espansione nello spazio, in vere e proprie sculture-installazioni. Mi sembra riporti l’atto della creazione ceramica non soltanto a una sua originaria creatività plastica ma anche alla dimensione appunto della terra: di una fittilità dalla quale tutto sembra essere originato e forse ancora poter originare.
Thurin, con accesa immaginazione plastica oggettuale, lavora al contrario alla costruzione di situazioni, anche di dimensione ambientale, attraverso le quali intende esprimere esplicitamente un proprio giudizio, direi “morale” inerente la dimensione disagevole dei rapporti nella società contemporanea. La sua posizione è critica ma interrogandosi in positivo. Il quesito che ora si pone è sul potere non tanto dunque, in negativo, come condizionamento e coercizione, quanto “come capacità di poter trasformare” (riferendosi al libro di Heinrich Popitz Fenomeni del potere). La sua immaginazione costruisce quindi di volta in volta delle sorta di “favole” plastiche, l’affermazione espressiva della cui “morale” preme alla Thurin come ragione del proprio operare ceramico, appunto preminentemente in dimensione di articolazione installativa. Perciò di volta in volta l’impianto formale dei suoi oggetti plastici si trasforma secondo una loro possibilità di affermazione d’esplicitazione immaginativa di quella “morale”. Quindi i risultati del suo fare risultano di volta in volta diversamente caratterizzati, in una affascinante avventura sempre nuova. Riconosce quindi che quelle che plasticamente costruisce “sono forme dell’essere , forme del diventare e della trasformazione”. E in questo senso ritiene che: “Il potere incorpora la varieta’ della vita”.
Dunque Concreta in edizione 2010, una buona occasione di dibattito, nella volontà e possibilità d’un proficuo confronto fra diversità. Ed è forse proprio il coraggio del confronto che maggiormente manca oggi un po’ ovunque, nel clima di debilitato (e debilitante) conformismo (gestito) globalizzato nel quale siamo assai letalmente immersi.
     
prof.Enrico Crispolti professore merito dell'Università degli studi di Siena  

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