Nella mappa italiana della scultura in ceramica, occorre segnare un nuovo punto di riferimento: la città di Certaldo che con la mostra “Concreta” inaugura un programma di eventi da dedicare, in terra toscana, alla ceramica artistica moderna e contemporanea.È, questo, l’ambizioso e lodevole intento cui la Municipalità di Certaldo dà avvio nel 2007 nell’ambito di “Mercantia”, festa di carattere medievale di ormai riconosciuta risonanza nazionale.
Nelle sale del Palazzo Pretorio le sculture di maestri contemporanei quali Carlos Carlé, Alessio Tasca, Paolo Staccioli, Enrico Stropparo, Sandro Lorenzini e Adriano Leverone, selezionate e raccolte da Gian Lorenzo Anselmi, della galleria Gulliver di Marciana Marina, in collaborazione con Pietro Elia Maddalena, direttore della Scuola Internazionale di Ceramica La Meridiana di Bagnano (Certaldo), si trovano a dialogare con la pervadente presenza dei segni di una antica, classicista tradizione. Una tradizione che anche qui ha trovato alti accenti in un territorio tanto abilmente condotto alle necessità dell’uomo quanto ancora capace di atemporali seduzioni, in una architettura sensibile al luogo e alle sue materie e, in particolare, per i nostri fini, in opere di scultura invetriata della cerchia robbiana o dei Buglioni ancora presenti nello stesso Palazzo Pretorio e nella vicina chiesa dei Ss.Jacopo e Filippo.
Certaldo ha dimostrato, anche in questa occasione, i segni di una grande vitalità raccogliendo la sfida di una via alla modernità artistica non più differibile anche per un luogo denso di memorie di un passato ancora altamente agente e vivo.
Thomas Mann, nel “Doktor Faustus”, affermava, con l’autorevole serenità e la lucida ragionevolezza che gli erano proprie: “Come infatti non si può capire il mondo nuovo e recente senza conoscere la tradizione, così l’amore del “vecchio” rimane falso e sterile quando si evita il nuovo che ne è derivato per necessità storica”.
La fine di un mondo - quello naturalistico di ispirazione classica - viene accettata da Mann solo a condizione che permanga la fiducia nell’arte e nella sua libertà. In arte, nulla trascorre o viene superato, altrimenti nessuno si darebbe più la pena di rileggere Omero o Shakespeare o di partecipare con sempre rinnovata commozione agli abbracci tra la Madonna e il Bambino in Luca della Robbia o al dolore degli umili in Caravaggio.
Da Certaldo, e dalla Toscana tutta, spirano ancora i riflessi di quell’”Inexplicable splendour of Ionian white and gold”, per dirlo con il verso di T.S.Eliot, che dalla Grecia classica si è travasato a Roma e poi nel Rinascimento italiano e che costituisce, nonostante i tanti secoli trascorsi, un mistero della cultura e dell’arte di tutti i tempi.
Di questa ineffabile e, forse, ineguagliata stagione in tanti si sono innamorati, anche in epoche vicine a noi. Basti pensare, limitatamente al Novecento, all’edificio simbolo della modernità, il Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe del 1929, esemplato sul modello del Partenone, e, poi, alle tante esercitazioni greche di Louis Kahn e ai dichiarati debiti della contemporanea vicenda minimalista nei confronti delle geometriche semplicità di una civiltà in cui i dati della razionalità e della sensibilità hanno trovato una rara sintesi.
A queste radici in tanti sono tornati, e torneranno, alla ricerca di una fonte pura e fortificante.
Per oltre duemila anni questa singolare unità di forma e pensiero ha irrorato i territori dell’arte, della scultura, dell’architettura e della ceramica. Anche nel più semplice oggetto - vaso, boccale o coppa che fosse - forma, uso e narrazione (popolare e quotidiana ma anche mitica, religiosa o immaginifica) trovavano originale unità.
Secondo un progetto diffuso e travasi da una disciplina all’altra, la scultura e la pittura hanno dialogato con l’architettura, e la ceramica, già nel primo Rinascimento, ha conquistato una pari dignità con le arti maggiori. Un percorso che l’arte della ceramica ha dovuto faticosamente riprendere nel Novecento grazie a Angelo Biancini, Leoncillo, Arturo Martini, Marino Marini, Lucio Fontana, Fausto Melotti e tanti altri, compresi gli artisti presenti in mostra, per affrancarsi dal ruolo di “arte minore” o di “arte decorativa” in cui era ripiombata, caso mai qualcuno pensasse che le conquiste avvengono una volta per tutte.
In Luca e Andrea della Robbia l’adozione come strumento espressivo della “nostra madre terra”, invetriata, aveva certamente accertate motivazioni religiose, in specie francescane, ma contribuiva anche ad esaltare, con il suo luminoso candore, quelle figurazioni spirituali che la terracotta dipinta o brunita, o lo stesso marmo, non riuscivano a portare al necessario grado di lucentezza e fulgore. Amato e ben conosciuto dagli umanisti fiorentini, San Bernardino aveva scritto: “El bianco risplende, così l’anima giusta luce e risplende de la grazia de Dio, el bianco significa la mente pura e netta, piena di intelligenza, piena de mondizia e de nettezza e de innocenza”. Solo con la ceramica, è sottinteso, possono essere ottenuti certi risultati artistici ma quanti sforzi sono stati necessari per rendere acclarata questa semplice affermazione che va ben oltre gli usuali e triti richiami alle entità primordiali della terra, dell’acqua e del fuoco.
La grande scultura robbiana, scultura in terra invetriata e dipinta, affascinò i contemporanei. Vasari, un secolo dopo, esaltò e accertò la fine dell’arte del “segreto degli invetriati di terra” che neppure i romani avevano sperimentato e iniziò, con lui, un mito destinato a riscoperte e imitazioni fino, almeno, al XIX secolo. Per limitarci a questo e al successivo secolo annotiamo tra gli estimatori illustri Horace Walpole, John Flaxman (e con lui Josiah Wedgwood), i pittori nazareni, preraffaelliti e simbolisti, Walter Pater, Adolfo de Carolis, John Ruskin. George Frederick Watts, Gabriele D’Annunzio e tra gli imitatori la manifattura Ginori di Doccia, quella faentina dei Ferniani e, a seguire, Pepi a Siena, Agresti all’Impruneta, Lelli a Firenze, Bondi a Signa, Fantechi a Sesto Fiorentino, Minghetti a Bologna, Cantagalli a Firenze (Giancarlo Gentilini).
Tutto questo per far intendere come, tra sincere motivazioni o furbe riproduzioni, un ideale di grazia, di sensibilità, di raffinatezza e di religiosità umanisticamente innestate sul grande solco della tradizione classica abbia perdurato per secoli e innervato alcune delle proposte più progressive di vari momenti storici, al pari del codice classico in architettura, della figurazione in pittura e dell’armonia in musica.
All’inizio del secolo scorso, comunque, questa gigantesca, apparentemente inossidabile, costruzione unitaria iniziò ad essere messa in crisi. Tradizione, continuità, evoluzione non apparivano più come termini pertinenti ad un secolo che si intravedeva, giustamente, come convulso e accelerato, turbato e incerto, frammentato e difficile.
Nasce la modernità artistica che tutti conosciamo, fatta di rivoluzioni, di una profusione di “anno zero”, di itinerari brevi e dal corto respiro, di tendenze in aspro conflitto tra di loro, di audaci sperimentalismi, di nuove espressioni e di nuove tensioni. Nell’Italia del primo anteguerra, solo per fare un esempio, si accavallano i frutti malati del Simbolismo, l’edonismo esotico ed estetizzante dell’Art Nouveau, la silente metafisica di De Chirico e le roboanti pulsioni, non solo artistiche, del Futurismo.
Negli anni Trenta, per limitarci all’arte della ceramica, il trionfo delle arti decorative (declinazioni dell’Art Déco, Gio Ponti, Guido Andlovitz, lencismo) e risorto Futurismo convivono con nuove forme di espressione (Leoncillo, Lucio Fontana, Salvatore Fancello, Agenore Fabbri, Luigi Broggini, Sandro Cherchi, Aligi Sassu) che, con la veggenza propria dei fenomeni artistici, prefigurano quelle deformazioni e quelle atrocità che la guerra non mancherà di lasciare nel corpo e nello spirito di milioni di esseri umani. La via dell’Informale - una astrazione combusta, bucata, offesa e deformata che soppianta ogni possibilità di ricomposizione figurativa e narrativa - era già segnata.
L’unità di forma e pensiero classica o classicista è, praticamente, esplosa e mille frammenti impazziti sono andati a costellare un firmamento inedito e non certo meno mirabile. A un mondo serenamente governato dalla sezione aurea succedono forme geometriche spezzate o materie che non possono essere più ricondotte, in quanto testimonianza di ingovernabili ansie singole o generali, verso un superiore ordine compositivo o formale.
Quello trascorso è stato un secolo che ha profuso, tra ottimismo e disperazione, una tale quantità di proposte artistiche che ha, in ogni caso, dell’ammirevole e del miracoloso. Non è questa la sede per ripercorrere, anche solo sinteticamente, i mille rivoli in cui si è diluito questo allontanamento da un passato che con la sua mole e con la sua ombra, come un enorme gigante, sembrava impedire ogni nuova forma di vita ma che pure aveva fortificato con i doni della bellezza e della raffinatezza i sogni, non solo terrestri, di tante generazioni.
Incrinata da cariche esplosive collocate in rapida successione, una millenaria costruzione è crollata: il codice architettonico classico è stato messo in pensione, l’armonia in musica ha lasciato il passo a ben altri ritmi e la figurazione, in pittura e in scultura, è stata sostituita da inedite astrazioni o inquiete deformazioni.
I resti del gigante, comunque, hanno continuato ad attrarre e a suggestionare. Il rapporto con la natura e con la storia che aveva orientato la navigazione artistica per tanti secoli, viene bruscamente interrotto ma ben presto, però, l’assenza dell’antico si ribalta nella necessità di una sua nuova presenza.
Tra i primi a ricercare questo, ben prima dei tanti “ritorni all’ordine” del Novecento che coinvolgeranno anche Picasso, è un figlio italiano della Tessaglia: Giorgio de Chirico. Sulle sue piazze o sulle lignee pedane orizzontali predisposte per l’esposizione dei frammenti della contemporaneità, de Chirico colloca enigmatiche presenze: statue dedicate a personaggi sconosciuti, cannoni, banane, carciofi, biscotti, guanti in caucciù, giocattoli spezzati, aste metriche, manichini, carte geografiche, frammenti lignei, squadre e infantili ghirigori: il tutto incorniciato da edifici classicheggianti con, spesso, sullo sfondo un basso muro che lascia intravedere un’altra irrisione alla modernità: un trenino fumigante e dalla meta sconosciuta. Questi assurdi “teatrini” rimangono tra le più autorevoli testimonianze di una condizione novecentesca che vive più di dubbi e contrasti che di fiducia e certezze.
Contrasti che stanno a significare la perdita di un senso condiviso e una ricerca minata dalla tragica frammentazione di una realtà senza centro.
Fenomeno ancora vivo e attuale se si pensa allo spazio del Palazzo Pretorio di Certaldo che ospita una selezione delle opere di alcuni tra i più rappresentativi scultori-ceramisti operanti in Italia negli ultimi cinquant’anni.
Sembra quasi di assistere a una contemporanea messa in scena dechirichiana. I tanti linguaggi espressi dagli artisti dialogano tra di loro secondo i ritmi di un colloquio forse impossibile ma obbligato dalla felice, contigua e ravvicinata collocazione; l’edificio del Palazzo Pretorio ricorda una storia e una tradizione millenaria; dalle finestre la modernità appare sullo sfondo.
Non so quanto tutto questo sia stato programmato o sia, più semplicemente, il risultato di una felice occasione, certamente, questa installazione non può non innescare fertili pensieri sulla modernità e sui destini della contemporaneità. De Chirico ricordava che “essere arditi quando si ha un passato da compromettere è il segno più grande della forza”. Questa occasione espositiva è una prova di grande forza: tra adesione alle istanze della modernità e riflessioni sul suo misurarsi con entità culturali più ampie. Un compito al quale non si sono certo sottratte, nel corso della loro lunga attività, figure come quelle di Alessio Tasca, Carlos Carlé e Adriano Leverone.
Alessio Tasca (nato a Nove nel 1929) è uno dei più autorevoli rappresentanti del rinnovamento ceramico avvenuto in territorio vicentino nel secondo dopoguerra. Dopo una prima fase dedicata all’oggetto tradizionale, nei primi anni Cinquanta si indirizza verso oggetti di spirito moderno - piatti graffiti su un fondo verde o bruno - che, tramite l’appoggio di Gio Ponti, vengono presentati alla Triennale del 1951. Partecipa alla importante mostra della ceramica italiana in Germania organizzata dalla Galleria Totti di Milano e, dal 1954, alle iniziative del “Gruppo 9” che intende contribuire al rinnovamento della ceramica veneta. Compie vari viaggi nei paesi dell’Europa centrale e del nord per conoscere meglio i protagonisti, le materie e le forme del design scandinavo e ottiene per ben due volte il Premio Palladio. Nel 1967 avviene la grande diversione di rotta: Tasca inizia ad utilizzare la trafila per opere di sempre più grande dimensione, rinuncia al colore e si interessa unicamente ai valori della forma. È di nuovo un successo, sancito dalle acquisizioni nel 1972 e nel 1980 da parte del Victoria and Albert Museum di Londra. Sezionando o comprimendo le opere uscite dalla trafila, generalmente in grès, terracotta o refrattario, l’artista ottiene Sfere o Sculture che se da una parte alludono a una già sottolineata, in ambito moderno, impossibilità di dare forma compiuta alla vocazione magmatica della materia, dall’altra conducono questo tema della “deriva” e della “rovina” verso esiti spiccatamente vitalistici che nulla hanno più in comune con una tradizione informale sopravvissuta, ormai, più per moto inerziale che per reali aderenze con la realtà contemporanea. Esigenza di dare forma (le strutturazioni geometriche della trafila) e collasso convivono nell’opera di Tasca a testimonianza di un difficile ma perdurante dialogo con il passato che troverà significative occasioni nei grandi pannelli a carattere figurativo eseguiti rispettivamente a Nove, nel 1991, su un muro dell’ex Manifattura Antonibon (dove sviluppa in 46 metri la storia del paese) e per la mostra personale alla Basilica di Vicenza del 1997, in cui presenta 266 formelle dedicate al ciclo affrescato nella Torre dell’Aquila del Castello del Buonconsiglio di Trento. Nell’opera di questo grande maestro la conciliazione tra presente e passato è miracolosamente avvenuta senza mimetismi e rinunce e secondo un antico spirito di continua innovazione nel solco di una tradizione intesa nei suoi significati più intimi e mai superficiali o formalistici come dimostrano, con l’autorevolezza della loro presenza, le opere in mostra.
Carlos Carlé (nato a Oncativa in Argentina nel 1928) vive dal 1963 in Italia e ha scelto come terra di adozione Albissola, uno dei più propulsivi centri della ricerca ceramica del Novecento. Qui, negli anni Trenta, il Secondo Futurismo aveva giocato le sue ultime e forse più autorevoli carte in contemporanea con le ricerche, di segno ben diverso, di Lucio Fontana, Salvatore Fancello e Agenore Fabbri e, nel secondo dopoguerra, vi si erano addensate, a sperimentare esiti ceramici, figure quali lo stesso Fontana, esponenti del gruppo Cobra, Roberto Matta, Wilfredo Lam e gli Spazialisti milanesi. Se le ricerche di alcuni di questi maestri, o di altri quali Alberto Burri, Antoni Tapies, i fratelli Pomodoro e Carlo Zauli, sono state ben presenti a Carlé, nondimeno l’artista ha saputo convogliare una comune matrice verso esiti personali ormai ampiamente riconosciuti. La sua attenzione si è ben presto rivolta verso quei materiali ad alta temperatura (grès) che, più di altri, potevano offrire adeguata espressione a quelle lacerazioni e a quelle combustioni del corpo e dell’anima che Leoncillo, per primo, aveva indicato come simbolo di una moderna condizione esistenziale. La materia convulsa e organicamente viva per doti fisiche e tattili viene, da Carlè, compattata in solidi o in forme geometriche che, soprattutto nelle opere di maggiore dimensione, riscattano l’impervio significato di cifrari sconosciuti o di apparizioni coloristiche tanto raffinate quanto agnostiche. La scultura riscopre una sua funzione in chiave quasi architettonica: steli e triliti di un tempo presente graffiato e annerito ma che non ha ancora perduto una antica aspirazione alla forma compiuta.
Anche Adriano Leverone, nato a Quiliano nel 1953 e formatosi tra Albissola e Faenza, ha optato per il grès come materiale espressivo preferenziale ma i suoi interessi sono andati piuttosto verso una costante riscoperta di quanto l’indagine sui fenomeni naturali può ancora offrire. Dopo gli studi a Chiavari e a Faenza che comprendono anche un periodo di apprendistato presso Carlo Zauli nel 1973-74, Leverone si dedica a studiare le variazioni modulari di un elemento a sezione quadrangolare. Verso il 1975 appaiono i suoi interessi per forme di derivazione vegetale. La natura, grande assente nell’arte contemporanea, diventa, per l’artista, il termine di confronto privilegiato, necessario e urgente per sculture sezionate, aggregate o portate a dimensioni fuori scala in cui si svela quanto di ancora sconosciuto è contenuto in forme generate al di fuori da schemi e atteggiamenti intellettualistici. Dagli anni Novanta, l’evidenza dei riferimenti iniziali si è sempre più rarefatta e la sua ricerca è approdata a forme essenziali e più sottilmente allusive agli originari richiami zoomorfi o fitomorfi.
A partire dagli anni Ottanta, le vicende generali dell’arte si sono in qualche modo riconciliate con la storia passata tra recuperi figurativi, in pittura e in scultura, inedite conciliazioni di astrazione e figurazione e indagini finalmente senza più quei limiti culturali e formali in cui si era riconosciuta gran parte della vicenda novecentesca. I nomi di queste tendenze sono noti: Transavanguardia, Pittura Colta, Citazionismo, Anacronismo; fenomeni artistici nati e teorizzati in Italia ma che, ben presto, hanno informato di sé l’ambiente culturale europeo e internazionale. Si è trattato, forse, di un ennesimo fenomeno di crisi che ha portato, tuttavia, a una generale riconsiderazione dell’arte e a una sorta di riconciliazione con il passato. A questo nuovo tempo hanno dato importanti contributi Enrico Stropparo, Sandro Lorenzini e Paolo Staccioli.
Enrico Stropparo, nato a Tezze sul Brenta nel 1953, è stato allievo di Alessio Tasca a Nove e a Venezia di Alberto Viani. Dopo le sperimentazioni sul “cotto” influenzate da Tasca inizia un originale lavoro su argille e refrattari impastati con ossidi e lavorati “ad intarsio”. Gli unici colori sono quelli delle stesse terre utilizzate. Quasi indagando i limiti della tecnica ceramica, Stropparo modula sulle lastre geometrie e citazioni, in chiave moderna, dei caratteri storici dell’architettura veneziana. L’apporto decorativo dei dettagli architettonici dell’antica tradizione veneziana - sensibile, per vocazione ambientale, al più tenue variare della luce - si traduce in opere che verranno sviluppate nella successiva serie, degli anni Novanta, dei pezzi unici dal forte carattere architettonico. Preziosismo tecnico e carica allusiva gli valgono il Premio Faenza nel 1989. Dopo un meditativo periodo di stasi creativa, Stropparo è tornato all’opera e le ciotole in mostra, dedicate a personaggi del Decamerone e, quindi, anche a Certaldo, sono tra i primi esempi dell’auspicata “rinascita” di un artista che ha saputo coniugare severe ricerche tecniche con dichiarate concessioni a tendenze artistiche di carattere dissacratorio e ludico.
Ancora più inserito nel circuito dell’arte tout court è stato ed è Sandro Lorenzini, nato a Savona nel 1948 e formatosi come scenografo all’Accademia di Belle Arti di Brera. L’apporto esogeno offerto da Lorenzini alla ceramica d’arte ha trovato un sostegno nella lunga attività teatrale svolta fino al 1975 e nelle attenzioni ad alcune tendenze di carattere neofigurativo emerse in Italia a partire dai primi anni Ottanta. La scultura in ceramica di Lorenzini è tornata a repertori figurativi ormai abbandonati e negletti privilegiando le icone di una figurazione arcaica e dai connotati fortemente simbolici. Arturo Martini, Fausto Melotti e Transavanguardia sono solo alcune delle componenti di un lavoro immaginifico sospeso tra il sogno e l’incubo che aspira al confronto con gli spazi urbani e storici. Tra le tante installazioni espressamente realizzate per un luogo particolare, si ricordano quelle di Savona, Padova, Caserta e Roccavignale dove, tra sapienti e calcolati rapporti con l’ambiente naturale e artificiale e teatrali giochi di luce, lo spettatore e le sue opere si sono trovati coinvolti in una sorta di inquietante gioco delle parti.
In Paolo Staccioli, nato a Scandicci nel 1943 e pittore fin verso la fine degli anni Ottanta, il richiamo dell’antico appare quasi più evidente se non fosse blandito da una encomiabile e rara lievità già ben sottolineata dalla critica. Le sue figure umane hanno vestito antichi panni guerreschi o, in giacca e cravatta, sono state condotte per impervie scalinate, fatte sedere pericolosamente su sfere o simbolici vasi, sono state allungate come nei bronzetti etruschi o obbligate a cavalcare puledri di mariniana memoria. I suoi cavalli, altro tema iconografico ricorrente, hanno alluso ai giocattoli dell’infanzia o, sulla scorta di Marini e Martini, a un atemporale, felice rapporto con la natura. Torri e primarie architetture sono state scandite con linee che ricordano le bicromie orizzontali dei marmi delle chiese toscane medievali mentre il recupero della tecnica del lustro testimonia di un altro persistente legame con antiche tradizioni. Il retaggio della pittura vascolare e le ambizioni della ceramica verso la scultura appaiono parimenti riportati nel suo lavoro. Nel circolare immaginario di Staccioli arcaismo, antichità classica, mondo etrusco, spazialità barocche, modernità e contemporaneità trovano momento di fertile dialogo all’insegna di una itineranza libera, senza confini e priva di intellettualistiche inibizioni.
Se pur attraverso vie diverse tutti questi maestri hanno dato un contributo originale all’apertura di nuove vie per la ceramica.
A questo generale momento di riflessione credo che la mostra di Certaldo possa dare un contributo. Innanzitutto per la scelta di presentare esclusivamente opere scultoree: l’ambizione e la conquista, cioè, di un’arte quale quella ceramica relegata per tanto tempo all’interno dei confini degli oggetti d’uso o delle “arti minori”. La ceramica, almeno a partire dal secondo dopoguerra, si è progressivamente affrancata dai ristretti ambiti decorativi cui era stata destinata e Faenza, da dove scrivo, è stato uno dei luoghi in cui questo processo ha ricevuto importanti e significativi stimoli con la presenza di artisti quali Angelo Biancini, Domenico Matteucci, Carlo Zauli, Ivo Sassi, Alfonso Leoni e Panos Tsolakos e con un Concorso della Ceramica d’Arte, il Premio Faenza, che negli anni ha premiato le più significative personalità a livello internazionale.
A Certaldo le opere sono state scelte con un solo gesto a testimoniare parte di un percorso della ceramica verso la scultura e non potranno, quindi, mancare, nel tempo delle successive edizioni, quelle necessarie integrazioni e quegli approfondimenti che diano ulteriore legittimità e consapevolezza a questa prima, autorevole, selezione.
Comunque, e ci pare il dato più interessante, anche a Certaldo è iniziato un dialogo tra espressioni e finalità artistiche diverse per tecnica, urgenza formale e ambito culturale di origine o di riferimento. Questa babele linguistica è altamente rappresentativa di uno stato e di un grado della modernità. Ogni opera è un’isola chiusa in se stessa ma tutte insieme formano un arcipelago, se non ancora una unità.
Nelle severe sale del Palazzo Pretorio ogni opera può essere colta, quasi con wilsoniana crudezza, per quel che è. Ai visitatori non sarà possibile ricorrere, se non in seconda battuta, a quegli usuali strumenti che hanno il difficile compito di chiarire o spiegare (schede, apparati didattici, informazioni). A queste opere ci si chiede di accostarci con sguardo puro e innocente, libero da ideologie e da intellettualismi. E, inoltre, come nei teatrini metafisici di de Chirico, non appare possibile, e tanto meno lecito, dare plausibilità all’accostamento di risultati artistici, a volte, anche di segno opposto e contrastante.
Più che ad un omaggio a singoli artisti ci troviamo di fronte a un doveroso atto di riconoscenza e di conoscenza delle fatiche espressive della fine di un secolo convulso e dai moti più intermittenti e tangenziali che lineari.
Questo è quello che emerge dalla visione delle tante opere raccolte in questo singolare spazio. Non sappiamo quali saranno i destini di un’arte quale quella della scultura in ceramica e se una antica unità formale e contenutistica potrà essere risvegliata ma lo stimolo che percepiamo da questa sorta di “laboratorio sperimentale” è che su tutta l’esperienza moderna occorre iniziare a interrogarsi per aprire nuove vie.
È significativo che questo richiamo avvenga anche in una terra e all’ombra di forme artistiche e architettoniche divenute “classiche” non in conseguenza dei libri, dei dizionari o delle trattazioni storiche, ma in forza dell’ampio portato che sorreggeva nel passato ogni manifestazione di vita, di pensiero e di qualsivoglia esigenza di dare forma.
Il secolo scorso si è aperto, a Vienna, con il fortunato motto stampigliato sul fronte del Palazzo della Secessione: “Al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà”. L’arte, anche quella della ceramica, ha, faticosamente e felicemente, conquistato livelli di libertà espressiva mai, prima, raggiunti; forse, come sottolineava Thomas Mann, abbiamo trascurato la creazione di un “tempo” capace di aurea misura. Ma, questa, non è una responsabilità dell’arte.  
 
 
Arch. Franco Bertoni è esperto delle Collezioni Moderne e Contemporanee del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza e docente di Progettazione all’ISIA di Faenza. Nel 2005 ha pubblicato con Jolanda Silvestrini Ceramica italiana del Novecento, Electa Mondadori.

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